martedì 1 settembre 2009

ESSERE LAICI NON SIGNIFICA NON CREDERE


Perché laico non vuol dire non credente


di Francesco Pullia

Alcuni interventi apparsi recentemente su diverse testate hanno contribuito a portare l’attenzione su una questione dibattuta molto poco e, per di più, raramente in modo approfondito. Si tratta del significato appropriato da attribuire al laicismo.

E’ inutile nascondere che è invalsa, purtroppo, la pessima abitudine, rispondente ad una confusione di fondo artatamente ingenerata, ad utilizzare il termine “laico” come sinonimo di “non credente”. Ciò non solo non corrisponde a verità ma è espressione di flagrante malafede. In realtà, tutto può voler dire “laico” fuorché “non credente”.

Continuare ad insistere su questo equivoco equivale a mortificare la ricchezza insita nel laicismo e, nello stesso tempo, ad umiliare la stessa ispirazione religiosa. Il laicismo è, infatti, il sostrato della religiosità, il connotato essenziale di un atteggiamento verso l’altro improntato ad apertura, ascolto e, quindi, alla capacità di lasciarsi attraversare della parola (cos’è, anche etimologicamente, il diàlogos se non un attraversamento intersoggettivo, una comunicazione resa paritaria da un’identica ricerca veritativa?).



Quando la religiosità espunge da sé ogni laica caratterizzazione diviene tetro formalismo, sottrae spazio all’alterità spacciando per vere concezioni che, invece, sono dogmatiche, integraliste, intolleranti, in breve ottusamente clericali.



Nel corso della storia si è sempre fatto ricorso alla chiusura autoreferenziale, quindi all’espulsione di connotazioni laiche, proprio allo scopo di occultare forme interne di dissenso, eterodosse. La Chiesa cattolica in questo è stata davvero maestra.



Non sono poche, ad esempio, le voci straordinarie che, in conseguenza di questa autoreferenzialità, sono state ridotte al suo interno non tanto alla marginalità quanto all’acerrimo e drammatico occultamento. Noi non le conosciamo tutte, non possiamo conoscerle, appunto perché non ne è stato reso possibile l’ascolto. Se contrapposizione deve porsi non può essere, quindi, tra “laicismo” e “religiosità” ma tra “spiritualità” e “clericalismo”.

Su questo non si è mai voluto sufficientemente riflettere perché ha fatto fin troppo comodo, innanzitutto agli pseudolaici nonché ai corifei del codinismo, avvalorare una bell’e buona stortura mentale.



L’accreditamento di “laico” con “non credente” ha fatto sì che venissero appositamente impedita la conoscenza di visioni come quelle di Piero Martinetti, Ernesto Buonaiuti, Aldo Capitini, Ferdinando Tartaglia, Danilo Dolci, dello stesso Giuseppe Rensi (si leggano, ad esempio, di quest’ultimo le intense Lettere spirituali, pubblicate postume nel 1943 e riproposte circa vent’anni fa da Adelphi). E, ancora, non si può tralasciare Carlo Michelstaedter da cui Aldo Capitini desunse e fece propria la fecondità racchiusa nel termine “persuaso”.



“La via della persuasione”, aveva scritto nel 1910 Michelstaedter, “non è corsa da omnibus, non ha segni, indicazioni che si possano comunicare, studiare, ripetere; ma ognuno ha in sé il bisogno di trovarla e nel proprio dolore l'indice, ognuno deve nuovamente aprirsi da sé la via, poiché ognuno è solo e non può sperare l'aiuto che da sé. La via della persuasione non ha che questa indicazione: non adattarti alla sufficienza di ciò che ti è dato”.



“Persuaso” venne adoperato da Capitini, filosofo che più di tutti ha dato in Italia forma e spessore al pensiero della nonviolenza arrivando ad elaborare la straordinaria teoria (e prassi) della compresenza, come "autopersuaso", "pervaso”, dunque come indispensabile premessa a quella tensione etico-religiosa che doveva condurlo ad incappare nelle strettissime maglie dell’istituzione cattolica.



“Le istituzioni”, affermò Capitini nel 1952, “quanto più si ergono superbe e totalitarie (cioè con la pretesa di abbracciare tutto), tanto più sono lussuria di potenza e ostacolo diabolicissimo, o storico o umano o mondano che si voglia dire, all'emergere di quella compresenza pura o realtà di tutti, che solo amore e valore ha per confine e che ha per fondamento incrollabile l'intimità e la libera apertura: spiritus ubi vult spirat (lo spirito soffia dove vuole)”.



Di conseguenza, la sua laica, ripetiamo laica, ferma convinzione che un rinnovamento religioso sarebbe potuto avvenire coralmente, ad opera di tutti gli esseri (assenti inclusi), non di una gerarchia chiusa in se stessa e paga di privilegi secolarmente acquisiti.



Ecco allora che il laicismo è espressione di una condizione interiore che, senza appellarsi ad alcuna mediazione, accoglie e vivifica l'istanza religiosa, rinnovandola perpetuamente e portandone i contenuti all'interno della società. Il laicismo è la rappresentazione di una religiosità non confessionale che, in quanto tale, fa a meno di dogmi, paramenti e, soprattutto, di assolutistiche imposizioni.
Posted By: Unknown

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